CR7 si racconta: “Ero piccolo e magro quando, a 11 anni, mi trasferii a Lisbona, ma avevo un sogno: diventare il migliore”

La vita di un campione, si sa, non sempre è tutta rosa e fiori come sembra. E’ fatta di scelte,sacrifici, rinunce a volte difficili ma prese in nome del calcio e del proprio sogno. Già, il sogno del bambino, la frase che CR7 ha deciso di scrivere sui propri scarpini, per ricordarsi sempre, prima di ogni gara, che dove è oggi è grazie a quello che ha fatto sin da bambino, partito dall’isola di Madeira. Il fenomeno portoghese ha deciso di raccontarsi a tutto tondo a “The player’s Tribune, ripercorrendo tutta la sua carriera, dai primi calci per strada ai trionfi in maglia Real.

 

“Ho dei ricordi nitidi di quando avevo 7 anni. Avevo appena cominciato a giocare a calcio, il vero calcio. Prima lo facevo per le strade di Madeira con i miei amici. E non erano strade vuote, erano strade dove passavano in continuazione le macchine. Non avevamo nemmeno una porta, dovevamo fermare il gioco ogni volta che arrivavano le macchine. Mi piaceva giocare così ogni giorno, ma mio padre era un dirigente della CF Andorinha e mi consigliò di andare a giocare nella loro squadra giovanile. Sapevo che questo lo avrebbe reso orgoglioso, così accettai. Il primo giorni fui contento anche se non capii alcune regole del gioco. Mio padre seguiva tutte le partite a bordo campo, con la sua barbona e i suoi pantaloni da lavoro.
A quel tempo non avevamo soldi, la vita era dura a Madeira, ma quando sei bambino il denaro non ti interessa, l’importante per me era sentirmi protetto e amato dalla mia famiglia. Ricordo con nostalgia quei momenti: il calcio mi ha dato tutto, ma mi ha anche portato lontano da casa e forse non ero ancora pronto. Avevo 11 anni quando mi sono trasferito a Lisbona per giocare con lo Sporting, è stato il momento più difficile della mia vita. Se ci rifletto ora, credo sia veramente pazzesco: mio figlio Cristiano Jr. ha 7 anni, penso a come mi sentirei a fare una borsa per lui tra 4 anni e a mandarlo a Parigi o a Londra. Mi sembra impossibile, deve esserlo stato anche per i miei genitori all’epoca.
Ma era l’opportunità per inseguire il mio sogno. Partii, piansi quasi ogni giorno. Ero ancora in Portogallo, ma sembrava di essere in un altro Paese, con un accento e una cultura diversi. Non conoscevo nessuno, la mia famiglia poteva permettersi di venirmi a trovare soltanto una volta ogni 4 mesi. Soffrivo ogni giorno, anche se sapevo che in campo stavo facendo delle cose che non riuscivano agli altri ragazzi. Una volta sentii un ragazzo dire a un altro: ‘Hai visto quello che ha fatto? Sembra veramente una bestia…’. Iniziai a sentirlo sempre, anche dagli allenatori. Ma poi qualcuno diceva sempre: ‘Sì, però è un peccato che sia così piccolo'”
Ero veramente magro, non avevo muscoli. Così a 11 anni decisi di lavorare ogni giorno più duramente di tutti gli altri. Smisi di ragionare come un bambino, sapevo di avere molto talento, cominciai ad allenarmi come se dovessi diventare il più forte del mondo. Cominciai ad avere fame, dopo le sconfitte, dopo le vittorie che dovevano diventare un punto di partenza. A 15 anni ricordo che dissi a un compagno: ‘Vedrai, un giorno sarò il numero uno al mondo’. Si mise a ridere. Non facevo parte nemmeno della prima squadra dello Sporting Lisbona, ma avevo quella convinzione.

Quando a 17 anni cominciai a giocare nel mondo dei professionisti, mia madre non riusciva a guardarmi per il troppo stress. I medici le prescrissero dei sedativi soltanto per le mie partite. E dire che all’inizio non le interessava il calcio. Ho iniziato a sognare in grande, volevo giocare in Nazionale e al Manchester United, perché avevo sempre guardato la Premier League in tv. Ero incantato dalla velocità del gioco e dal calore dei tifosi. Quando sono diventato un giocatore dello United per la mia famiglia fu un orgoglio ancora più grande.
I primi trofei sono stati molto emozionanti. Ricordo la prima Champions League, è stata una sensazione travolgente. Stesso discorso per il mio primo Pallone d’Oro. I miei sogni continuavano a crescere, volevo andare a vincere a Madrid, battere ogni record e diventare una leggenda del club. Negli ultimi anni ho realizzato delle cose incredibili in Spagna. Ma sono onesto, i trofei successivi hanno avuto delle emozioni diverse. A Madrid, se non si vince tutto, allora la stagione viene considerata un fallimento. Queste sono le grandi aspettative, questo è il mio lavoro. A Madrid sono diventato padre, non solo calciatore.

C’è un momento vissuto con mio figlio che ricorderò per sempre. Dopo la finale di Champions a Cardiff ero in campo e pensavo di aver ribadito il mio valore al mondo. Ma poi mio figlio è arrivato e le emozioni sono completamente cambiate: abbiamo tenuto insieme il trofeo, abbiamo fatto il giro del campo mano per mano. Ci sono sensazioni che non si possono descrivere con le parole. Posso paragonare quell’emozione soltanto con la mia prima volta che vidi a Madeira mia madre e mia sorella sedute sugli spalti.

Quando siamo tornati al Bernabeu per festeggiare, Cristiano Jr e il figlio di Marcelo stavano giocando in campo davanti a tutti i tifosi. Era una scelta molto diversa rispetto a quando giocavo alla sua età per stradra, tra le macchine. Spero che anche mio figlio però abbia le mie stesse sensazioni. Ho ancora voglia di migliorarmi, per questo ho deciso di mettere un messaggio speciale sul tallone dei miei nuovi scarpini Mercurial. Sono le ultime parole che leggo prima di entrare in campo, è una sorte di promemoria finale, una motivazione in più: ‘El sueño del niño’, il sogno del bambino. La mia missione è sempre la stessa, voglio continuare a battere tutti i record, voglio vincere più trofei possibili. Questa è la mia natura. Ma la vittoria più grande, a Madrid, è quella di aver passeggiato da campione mano per mano con mio figlio. Lo racconterò ai miei nipoti quando avrò 95 anni. E spero di poterlo fare di nuovo…”.

CRISTIANO RONALDO

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