Pirlo ricorda: “Quando dovevo giocare contro tutti…”


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“Ma quello chi si crede di essere, Maradona?” era la domanda retorica più utilizzata, la facevano ad alta voce e con l’intento di provocare, spinti dall’invidia, senza sapere che in realtà mi stavano regalando il più grande dei complimenti. Adulti contro un marmocchio, la sfida per definizione era impari e sbagliata, non potevo che difendermi stupendo. Facendo esattamente quello di cui venivo accusato. Segnato da una colpa inesistente. Protetto da un’armatura invisibile, che ogni tanto lasciava passare qualche coltellata, troppe frecce di archi avvelenati. Tutte insieme mi hanno colpito quando avevo quattordici anni, durante una partita del campionato Allievi. Giocavo nel Brescia, ma quella volta
era il Brescia a giocare contro di me.
“Passatemi la palla.” Silenzio.
Eppure avevo urlato forte, e parlavo un italiano piuttosto corretto
“Ragazzi, passatemi la palla.” Altro silenzio, talmente opprimente da sentire l’eco delle mie parole.
“Oh, allora?” Ancora silenzio, tutti sordi.
Il pallone non me lo passava nessuno. I miei compagni giocavano tra di loro, senza considerarmi. C’ero ma non mi vedevano, o meglio mi vedevano ma si comportavano come se non ci fossi. Mi escludevano come un lebbroso, solo perché ero più bravo di loro. Vagavo come un fantasma, mi sentivo morire.
Si stavano ammutinando contro di me. Neanche mi parlavano. Neppure uno sguardo nella mia direzione. Niente.
“Allora, me la date o no?” Di nuovo silenzio.
Mi sono saltati i nervi, sono scoppiato a piangere. Sul campo, senza ritegno, davanti a ventuno avversari, undici dell’altra squadra e dieci della mia. Non riuscivo più a smettere. Correvo e piangevo. Scattavo e piangevo. Mi fermavo e piangevo. Abbattuto, depresso, soprattutto ancora adolescente. E a un adolescente queste cose non dovrebbero capitare. A quell’età si dovrebbe fare gol ed esultare, ma il fatto che ne segnassi troppi dava fastidio a un sacco di gente. È stato quello il momento preciso in cui la mia carriera ancora all’inizio ha svoltato, prendendo la direzione giusta. Le possibilità erano due: incazzarmi e smettere, oppure incazzarmi e continuare, ma a modo mio. La seconda ipotesi mi sembrava più intelligente della prima, realizzabile in tempi rapidi.
Sono andato a prendermi il pallone. Una, dieci, cento volte. Io contro il resto del mondo, io contro i resti del mio mondo.
Non volevano giocare con me? E allora io giocavo da solo, tanto avevo le armi per farlo. In dieci non riuscivano a segnare, io da solo sì. Li dribblavo tutti, compresi quelli che vestivano la mia stessa maglia. Su una cosa erano completamente fuori strada: non avevo la minima intenzione di fare il fenomeno, la verità era molto più semplice, io ero proprio fatto così. Agivo d’istinto, non si trattava di fantasia costruita.
Quello sfogo è stata la molla: se noto troppe persone intorno tendo a non parlare, a emozionarmi, nel bene o nel male, senza darlo a vedere, però quel pomeriggio le cose sono andate diversamente. E ho incominciato un discorso lunghissimo, interiore e quindi silenzioso, privato, al limite del folle:
“Andrea, avere un pregio non può essere vissuto come un peso, è vero, sei di un livello superiore e di questo vanne orgoglioso. Madre Natura con te è stata generosa, quando sei nato era in buona, ti ha regalato il tocco magico: sfruttalo. Vuoi diventare un calciatore? Questo è il sogno che ti si è appiccicato addosso? Gli altri vogliono fare gli astronauti ma a te di volare non frega un cazzo? Ecco, allora vatti a prendere quel pallone. Accarezzalo. Ti appartiene, deve essere tuo, gli invidiosi non lo meritano. Loro sono ladri di emozioni, torna in possesso di quella parte di te. Sorridi. Sii felice. Rendi magnifico questo momento, poi aggiungine altri. Salta anche tu dall’altra parte della staccionata, idealmente insieme a tuo padre, intanto gli inseguitori perderanno terreno, questo è scritto.
Vai, Andrea. Vai”.

(Andrea Pirlo, Penso quindi gioco)

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