Football Stories: Ferenc Puskás, l’ungherese immortale

Non c’è stato ungherese che non sia rimasto intaccato nel profondo dalla sua morte. Il più famoso ungherese del ventesimo secolo ci ha lasciato, ma la sua leggenda ci accompagnerà sempre”. Queste sono le parole dell’ex primo ministro ungherese Ferenc Gyuscsany al momento di annunciare la scomparsa del più importante personaggio ungherese che abbia vissuto nel nostro tempo. Se lo è portato via l’Alzheimer, una malattia terribile che rimuove come una gomma tutti i ricordi accumulati nell’arco di un’intera esistenza. Forse la peggior sorte che gli potesse capitare, perché uno come lui, di ricordi, ne ha avuti proprio tanti. La frase è ovviamente tradotta, l’originale è in lingua ungherese: un idioma ostico, quasi impossibile da pronunciare per chi non è nato lì. Quasi, è vero, perché almeno due parole le sa pronunciare tutto il mondo. E se queste due parole sono un nome e un cognome, vuol dire che questo personaggio ha lasciato ai posteri un’eredità immensa. Nel calcio e nella vita: si chiama Ferenc, Ferenc Puskás.

GLI ESORDI ALLA HONVED E IN NAZIONALE: Nasce a Kispest, quartiere di Budapest, il 12 aprile del 1927. Come molti altri grandi calciatori, cresce per strada. Viene immediatamente tesserato dalla squadra locale, la Honvéd. L’allenatore è suo padre e, accortosi delle potenzialità del figlio, pur di farlo esordire prima del compimento dei 12 anni (età minima) gli cambia il nome in “Kovac“. Ha ragione a voler anticipare i tempi: il piccolo Ferenc è già un giocatore pronto. Sta bruciando le tappe come pochi prima di lui e, a 16 anni, viene chiamato in prima squadra: Öcsi (il “fratellino”), così era soprannominato dai compagni per via della sua giovanissima età, si sta per mostrare al mondo. Segna una media di 45-50 gol a stagione, con quel sinistro magico capace di sopperire a una massa grassa forse eccessiva e a un’altezza mediocre. Nell’agosto del 1945 arriva anche l’esordio in nazionale, in un’Ungheria pacificata solo da pochi mesi. Nel 1947 gioca contro l’Italia, la grande Italia bi-campione del mondo, praticamente composta dal grande Torino più Sentimenti IV (estremo difensore della Juventus) a difesa dei pali. Vinciamo 3-2 con un gol di Loik al 90′ e Puskás, al termine della partita, abbraccia l’immenso Valentino Mazzola. Non sa che, 17 anni più tardi, farà la stessa cosa con il figlio Sandro, al termine della finale di Coppa dei Campioni persa contro l’Inter. La Honvéd è una polisportiva e, oltre al calcio, ha anche la sezione di pallamano. Un giorno, con entrambe le squadre in ritiro, una ragazza fa “irruzione” nello spogliatoio maschile chiedendo un pettine. Ferenc è il primo che si avvicina: glielo porge e iniziano a parlare. Diventeranno grandi amici prima e fidanzati poi, fino al matrimonio. Elisabetta, questo è il suo nome, sarà un personaggio chiave nella vita di Puskás. Fin da subito, quando con un suo pianto straziante fa soprassedere il ragazzo sulla possibilità di andare a giocare alla Juventus: è ancora troppo presto per lasciare l’Ungheria, la squadra sta crescendo a vista d’occhio.

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IL RIMPIANTO PIÙ GRANDE: Elisabetta ha ragione, l’Ungheria sta diventando una grande squadra. Nel 1952 si giocano le Olimpiadi di Helsinki e i magiari non si presentano di certo con l’etichetta di favoriti. Eppure, dopo un memorabile 6-0 alla Svezia, lo diventano. Giocano un calcio meraviglioso e hanno in Puskás la macchina da gol perfetta. Arrivano in finale, ad attenderli c’è la Jugoslavia del compianto Vujadin Boskov e Puskás sbaglia un rigore dopo pochi minuti. Al termine della prima frazione di gara, nello spogliatoio gli viene chiesto: “Ferenc, ce la fai vincere vero?“. Ha già capito che l’esito della partita è tutto nelle sue mani, anzi, nel suo magico sinistro. Così avviene: l’1-0 lo firma proprio lui. Il secondo gol lo firma Czibor. L’Ungheria vince la medaglia d’oro olimpica. Quando la squadra torna a casa, ad aspettarli ci sono 400.000 persone e il più grande telecronista ungherese dà loro il soprannome di “Aranycsapat“, la “squadra d’oro”, che li accompagnerà per sempre. Dalla Finlandia alla Svizzera, due anni dopo, perché si gioca il Mondiale. Dopo il magnifico exploit delle Olimpiadi, l’Ungheria si appresta a disputare questa competizione sapendo che tutti gli occhi sono su di lei. Non solo per la conquista del titolo olimpico, ma anche per aver battuto (e dominato) l’Inghilterra a Wembley: un 6-3 memorabile, destinato a entrare nella storia del calcio. Come da pronostico, gli ungheresi riescono a raggiungere la finale dopo aver battuto Brasile e Uruguay. ll tutto senza Puskás, costretto a saltare la maggior parte delle partite a causa di un infortunio. L’avversario è la Germania che, dopo averne presi 8 proprio dall’Ungheria durante la fase a gironi, è riuscita a qualificarsi. Nonostante Ferenc sia al 40%, l’allenatore Sebes decide comunque di schierarlo titolare al centro dell’attacco. Allo scoccare dell’ottavo minuto di gioco, i magiari sono già avanti di due gol (uno dei quali, nemmeno a dirlo, è di Puskás). La coppa sembra già aver preso la destinazione di Budapest, ma mai sottovalutare i tedeschi: alla fine, quella coppa andrà a Berlino. Questa sconfitta non caratterizzerà solamente la storia sportiva dell’Ungheria – la cui squadra verrà smantellata di lì a poco – ma anche quella geopolitica di questo paese.

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LA RIVOLUZIONE UNGHERESE E L’APPRODO AL REAL: “Se l’Ungheria avesse vinto il Mondiale del ’54, non ci sarebbero stati i morti del ’56“. Già, il 1956, anno in cui si svilupperà il più grande dramma della storia dell’Ungheria. Siamo in piena Guerra Fredda e Budapest è sotto il controllo dell’Unione Sovietica. La rivolta anti-comunista che si sviluppa è ai limiti della tragedia, al termine della quale si conteranno circa 2.700 vittime ungheresi. E Puskás? Lui decide di fuggire, cosa che – insieme ad altri calciatori – gli costerà due anni di squalifica per diserzione da parte della UEFA. Nel natale del 1956, ritrova anche la moglie e la figlia, riuscite a scappare clandestinamente anch’esse. Nel 1958 arriva la chiamata del Real Madrid, o meglio, arriva un provino. È considerato sovrappeso e abbastanza demotivato, ma l’incontro con il presidente Bernabéu è decisivo: è amore a prima vista, “Pancho” Puskás vestirà la maglia della Casablanca. Di Stéfano, il padrone dello spogliatoio blanco in quel momento, non è convinto della scelta, ma dopo poche partite scatta la scintilla. Nella sua biografia “Gracias, Vieja“, l’immensa “Saeta Rubia” scriverà di lui: “chi non l’ha mai visto giocare, non sa cosa si è perso“. Puskás segnerà 156 gol in 180 partite, 4 dei quali in una sola partita: la finale di Coppa dei Campioni del 1960, a Glasgow, contro l’Eintracht di Francoforte. Di Coppe dei Campioni, alla fine, ne vincerà 3 e sarà ricordato per sempre come uno dei più grandi della storia delle merengues. Tutto questo tra i 32 e i 38 anni, perché nel 1966 “Pancho” decide di appendere le scarpette al chiodo e di iniziare la carriera da allenatore.

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I SUCCESSI DA ALLENATORE E IL TRAMONTO DEFINITIVO: Se da calciatore è stato uno dei più grandi, come allenatore non è stato certo da meno. Nel 1970 arriva la sua prima panchina importante: quella del Panathinaikos. Vince immediatamente il campionato greco, per poi bissare il successo due anni dopo, ma il vero capolavoro è quello che si manifesta a metà tra i due successi nazionali. È il 1971 quando i greci si presentano alla Coppa dei Campioni e Puskás, convinto della bontà del proprio lavoro e della qualità dei giocatori in suo possesso, promette al presidente di poter raggiungere la finale. Quest’ultimo lo guarda basito, quasi ridendo, ma non sa che il Boss (così era chiamato l’ungherese) ha ragione. La finale la raggiungeranno eccome, ma – purtroppo per loro – davanti c’è la squadra più in forma del pianeta: l’Ajax di Johan Cruijff. Nel 1993, in un’Ungheria ormai democratica, Puskás torna a casa. Viene ovviamente accolto come un eroe e, finalmente, può vivere con la sua famiglia e con i suoi vecchi amici della “squadra d’oro” fino alla fine dei suoi giorni. Nel 2005 viene a fargli visita la grande squadra del Real con la quale ha condiviso tantissimi successi. Quando Di Stéfano si avvicina per riabbracciarlo, però, Ferenc non lo riconosce: l’Alzheimer sta ormai prendendo definitivamente il sopravvento sui suoi neuroni.

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Se ne va un anno dopo, il 17 novembre del 2006, a causa di una polmonite. Fino all’ultimo istante, la moglie Elisabetta ha continuato a parlargli convinta che Ferenc lo ascoltasse. È sepolto nella grande cattedrale di Santo Stefano, privilegio che era concesso solo a regnanti e a reliquie di santi. Fino a quel momento, ovverosia fino a quando non è morto l’ungherese più importante. Colui che è stato capace di segnare 84 gol in 85 partite in nazionale e più di 1000 gol in carriera; colui che ha ridipinto il calcio con il suo magico sinistro; colui che ha compreso più di tutti il significato di “madridismo” pur non essendo spagnolo; colui che è riuscito a portare una squadra come il Panathinaikos a sfiorare una storica Coppa dei Campioni; colui al quale è stato intitolato un premio assegnato al gol più bello dell’anno. Perché l’Alzherimer gli ha portato via la memoria, ma non potrà mai sbiadire il ricordo meraviglioso, unico e immortale che il mondo intero ha e avrà sempre di lui.

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