Geni della panchina: Nereo Rocco, el Paròn

Durante un’intervista, alla vigilia di uno Juventus-Padova: “Vinca il migliore, Signor Rocco” – “Ciò, speremo de no!

Raccontare un personaggio come Nereo Rocco non è per nulla facile. Una corazza da duro e inflessibile che nascondeva un animo bonaccione da padre di famiglia; parlava spesso – se non sempre – in dialetto triestino, condito da quel “mona” che ormai era diventato un intercalare; centinaia di pranzi al ristorante “l’Assassino” di Milano insieme all’indimenticabile Gianni Brera, durante i quali il vino scorreva a fiumi e non si contavano i cicchetti di grappa. Nereo Rocco è stato al mondo così, dando lezioni di calcio e di vita. E tutti, proprio tutti, gli devono qualcosa: dagli allenatori moderni ai giocatori che ha allenato, dai giornalisti con i quali si è scontrato a quelli che di più ammirava. Lo hanno definito “catenacciaro”, titolo che non ha mai rifiutato: ciò che lo mandava seriamente in bestia era che, sebbene molti altri allenatori adottassero lo stesso identico modo di stare in campo, l’unico a essere additato così era solo lui. “Mi fazo catenaccio, lori i xe prudenti“: io faccio catenaccio, gli altri sono prudenti. Lui è El Paròn, il capo, e questa è la sua storia.

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GLI INIZI IN PANCHINA: Nereo Rocco nasce a Trieste il 20 maggio del 1912. Il suo cognome, in realtà, era “Rock“, di origine austriaca. Il padre decide di cambiarlo in Rocco nel 1925, perché per lavorare bisogna avere la tessera del fascio e non ci si può permettere di avere un cognome che abbia quelle origini. Da ragazzo, divide la sua passione per il calcio con il suo lavoro nella bottega del padre, ma quest’ultimo lo richiama spesso sulla terra, ricordandogli che “il pallone non ti dà da mangiare”. Eppure il giovane Nereo non si dà per vinto e decide lo stesso di intraprendere la carriera di calciatore: nel 1927 esordisce con la Triestina e questo sarà l’inizio di una carriera piuttosto discreta. Quando si ritirerà dall’attività agonistica avrà all’attivo anche una presenza in Nazionale, nel 1934 contro la Grecia. La sua vita, però, cambierà quando passerà dai verdi campi alla panchina. Nel 1947 viene chiamato proprio dalla Triestina, che quell’anno sarebbe stata ripescata in massima serie, ed ecco arrivare il suo primo, grande risultato: la squadra della sua città si classifica seconda dietro il grande Torino di Valentino Mazzola.

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DAL PADOVA AL TETTO D’EUROPA CON IL MILAN: Nel 1954 si siede sulla panchina del Padova, squadra che all’epoca arrancava in serie B e aveva poche velleità di classifica. Anche qui, Rocco si rende protagonista di un vero e proprio miracolo: dopo averlo riportato in serie A, riesce addirittura a farlo arrivare terzo nella stagione del 1957-58. I suoi risultati non passano inosservati, e nel 1961 arriva l’occasione della vita: si fa avanti il Milan, squadra con la quale il Paròn scriverà la storia del calcio italiano. Presto diventa il padrone dello spogliatoio. Un capo, appunto. Riesce immediatamente ad avere in pugno la rosa, stringendo un legame indissolubile con tutti i suoi calciatori. Ogni qualvolta deve prendere una decisione importante, istituisce il cosiddetto consiglio di sicurezza, formato da un membro permanente (Gianni Rivera) e da un componente per ciascuno dei tre ruoli: un difensore, un centrocampista e un attaccante. Gianni Rivera, appunto. Quel numero 10 per cui Rocco stravedeva. Lui avrà le chiavi del suo cuore, ma le “cocoriteTrapattoni e Lodetti e Cesare Maldini – il capitano – non saranno da meno. Il primo anno arriva immediatamente lo scudetto, ma nel 1963 il Milan diventa grande anche in Europa: a Wembley, contro il Benfica, una doppietta di Altafini regala ai rossoneri la prima, storica Coppa dei Campioni. Prevedibile, perché quella vittoria è arrivata molto prima del 90°, molto prima che le squadre scendessero in campo. È stato Rocco stesso, sul pullman, a sgombrare la mente dei calciatori e a far loro assumere la consapevolezza di poter vincere. “Chi no xe omo, resti sul pulman“ (chi non è uomo, resti sul pullman), ma al momento di entrare allo stadio ne mancava uno: era proprio lui, il Paròn, che volontariamente era rimasto seduto sul pullman.

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DAL TORINO AL RITORNO AL MILAN: Dopo essere diventato campione d’Europa, Rocco decide che è il momento di cambiare aria: da Milano si va a Torino, la panchina che lo attende è quella granata. Qui resta quattro stagioni, con l’acuto del terzo posto raggiunto nel 1965, per poi tornare nel suo amato Milan nel 1967. Come già accaduto durante la sua prima esperienza in rossonero, vince lo scudetto al primo tentativo, L’anno successivo è ancora finale di Coppa dei Campioni: davanti al “diavolo” c’è l’Ajax di Johan Cruijff. Durante l’esplicazione delle marcature alla squadra, al momento di rivelare chi avrebbe tenuto d’occhio il fenomeno olandese con il “14” sulle spalle, il difensore Malatrasi ha da ridire sulla scelta del mister di utilizzare Angelo Anquiletti in quella posizione: “Signor Rocco, cambi”. El Paròn si rivolge immediatamente al Dottor Monti, medico sociale del Milan:  “Cossa xe che’l vol? – “Dice di cambiare marcatura” – “Dighe che s’el cambiassi le mudande“. Ovviamente ha ragione lui: i rossoneri sollevano la coppa e Cruijff non tocca palla, praticamente annullato da Anquiletti. La sua storia in panchina termina nel 1977, ancora al Milan, dopo una breve parentesi a Firenze. Al termine della carriera da allenatore, nella sua personalissima carriera ci saranno: 2 scudetti, 3 Coppe Italia, 2 Coppe dei Campioni, 1 Coppa delle Coppe e una Coppa Intercontinentale.

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Nereo Rocco lascerà questo mondo due anni dopo, nel 1979. Le ultime parole sussurrate al figlio Tito sono state: “dame el tempo“. Già, proprio ciò che diceva ai suoi collaboratori in panchina quando voleva sapere quanto mancava al termine della partita. Ha trascorso una vita colma di successi ed è stato autore di citazioni che rimarranno sempre impresse nella mente degli appassionati di questo sport. Si potrebbe ricordare di quando un giocatore gli chiedeva il perché di un’esclusione e lui rispondeva “decisione di Maria” (la signora Maria, sua moglie), o di quando un giornalista francese lo ha fermato dicendogli “Monsieur Rocco, mon ami!” per poi sentirsi rispondere dallo stesso Rocco “mona a mi?  Mona a ti e anca testa de gran casso“. Tutto questo era, e sarà per sempre, Mister Nereo Rocco. Anzi no, perché: Mister te sarà ti, mona. Io sono il signor Rocco.

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