Schick racconta: “Mi dicevano che non correvo, ma il mio compito era segnare. Che orgoglio dopo il primo contratto, potevo permettermi un iPhone al mese!”

Da perfetto sconosciuto a stella del mercato, l’anno vissuto a Genova da Patrick Schick è stato un’altalena di emozioni, dall’arrivo dalla Repubblica Ceca alla squadra del Presidente Ferrero, ai primi approcci non certo indimenticabili con il calcio italiano e con mister Giampaolo. Il tecnico blucerchiato, che nemmeno sapevo chi fosse, su ammissione dell’attaccante ceco, proprio non lo vedeva, poi l’ha dosato a piccole dosi, infine l’ha lanciato nella mischia. Ne è venuta fuori una prima stagione italiana, il girone di ritorno specialmente, più che buona, con le sirene di mercato bianconere, il mistero delle visite mediche non passate ed infine il costoso trasferimento nella capitale. il neo attaccante della Roma, seppur giovanissimo, racconta così questo suo primo scorcio di carriera, dai primi calci al primo contratto con lo Sparta Praga, sino allo sbarco in Italia.


“Da piccolo mi facevo notare, segnavo molto, ma quando non ci riuscivo piangevo talmente tanto che i miei allenatori mi dovevano sostituire. Papà si preoccupava per me, assisteva sempre alle partite e quando facevo qualcosa di sbagliato si copriva gli occhi con le mani e scuoteva la testa: mi rendeva nervoso. A 12 anni ero un giocatore dello Sparta Praga e partecipai a un torneo. Per qualche motivo, papà scosse ancora la testa, e quando mi urlò qualcosa non ressi più, mi girai verso di lui e gli feci il dito medio. Penso che qualcosa successe in quel momento. Sono cambiato molto. Fino ad allora, me la prendevo parecchio, ma improvvisamente pensai: “Chi sta giocando a calcio qui? Io o lui? Io!”. Papà smise, ma ci furono altre persone che davano consigli non richiesti e parlavano. Non ho mai più mostrato il medio, di solito ondeggio la mano, ma significa la stessa cosa.

Non piacevo molto ai miei primi allenatori, ma loro non sapevano cosa facessi a casa. Per esempio, ho corso per 7 anni. Decidevo che sarei stato il migliore la volta dopo. Non andavo agli allenamenti due ore prima o tornavo a casa due ore dopo, non andavo in palestra regolarmente, penso che non sia necessario. Non devo fare le gare, devo segnare.
In una partita contro il Manchester United, Wayne Rooney, 17 anni, corse verso di me, che ne avevo 8. Questo è quello che voglio, non dover mai avere un lavoro normale. Vivere come lui.

Quando firmai per lo Sparta Praga non ero nervoso, mi calmai immediatamente. Ero ricco ed eccitato e intorno al diciottesimo compleanno andò anche meglio, perché iniziai ad allenarmi con gli adulti e lo Sparta mi offrì un nuovo contratto da 30.000 corone al mese: realizzai che ero diventato un professionista. Un vero giocatore dello Sparta che poteva comprarsi un nuovo iPhone al mese, una bomba!

Cinque anni fa giocammo a Jablonec e vincemmo 3-0. Segnai due gol, uno molto bello all’incrocio dei pali, per cui c’era soddisfazione. Due ore dopo arrivammo al nostro centro di allenamento e fui chiamato in ufficio dal direttore sportivo e dal tecnico. Ero sicuro che mi avrebbero fatto i complimenti, ma quando entrai iniziarono a dirmi che non avevo lottato, che non tornavo in difesa, che non avevo lavorato per la squadra. Dissi che se non gli piacevo, avrei giocato da qualche altra parte, ma che non avrei cambiato il mio modo di giocare. Probabilmente non correrò mai ad aggredire gli avversari come un pazzo, sono un tipo che vuole giocare nel modo più intelligente possibile e più possibile col pallone, questa è la mia filosofia. Se provassi a fare in modo diverso, sarei a disagio.

Arrivato a Genova Giampaolo mi chiese come mi chiamassi e mi resi conto che non sapeva chi fossi. Dopo le partite in cui non giocavo, stavo a casa arrabbiato e mi chiudevo in camera, da dove chiamavo il mio agente perché non sapevo cosa fare. Lui mi disse di non fare nulla e di essere paziente, così ci provai e ci fu una svolta. Ero a Torino dove giocammo contro la Juventus, alla fine di ottobre. Il mister mi schierò titolare insieme a qualche altro giovane compagno, probabilmente voleva farci fuori, dandoci una chance per poi avere motivi per non farsi rompere le scatole dopo la sconfitta. Ma andò abbastanza bene e segnai, fu una fortissima emozione.

Due giorni dopo in allenamento sbagliai un paio di volte e lui cominciò a urlarmi contro in modo isterico. C’erano anche i miei genitori a vedermi. Quando tornai a casa mi chiusi in camera e diedi calci alle sedie per un’ora. Chiamai di nuovo il mio agente e mi disse che la mia chance sarebbe arrivata. Nella partita successiva l’allenatore mi fece scaldare all’intervallo, ma al 18’ mi disse di sedermi perché sarebbe entrato qualcun altro. Ma poi lui fu allontanato per proteste e il suo secondo mi chiamò: nella mia testa avevo già smesso di giocare, ma entrai e segnai al 90’.

Alla fine della stagione potevo scegliere, le offerte che mi piacevano di più arrivavano da Torino, Milano e Roma. Scelsi la Juventus, non vedevo l’ora. A giugno mi sentivo un giocatore della Juventus, ma in realtà non lo ero.
Quando tornai dalle vacanze, il mio agente Paska mi disse che sarei dovuto tornare a Torino per altri test. Risposi che non sarei andato da nessuna parte. Dunque il presidente della Sampdoria mi disse che avrebbe voluto spuntare il prezzo più alto possibile e lo fece, cedendomi per 40 milioni di euro alla Roma. Quando ho firmato, ho provato grande sollievo perché potevo concentrarmi solamente sul calcio.

Guadagno molto di più e questi soldi li prendo come una motivazione e spero che in pochi anni mi sposterò ancora più in alto, dove logicamente sarò pagato ancora meglio. Queste motivazioni mi hanno sempre aiutato tanto a rendere meglio.
Dove? Penso sia molto difficile arrivare tanto più in alto. Ma ci sono un altro paio di club, diciamo Real Madrid, Barcellona o Manchester United”.

PATRICK SCHICK

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