I soldi non fanno la felicità? I panni sporchi si lavano in casa? Provate a dirlo alla famiglia Adebayor.
Emmanuel Adebayor lo conosciamo tutti. Fino all’anno scorso un’ottima carriera, passata tra Monaco, Arsenal, Manchester City, Real Madrid e Tottenham. Non è (quasi) mai stato un attaccante da venti gol a campionato, ma il suo lo ha sempre fatto. Fino all’anno scorso. Già, perché l’anno scorso inizia a giocare male, sempre meno, e non segna praticamente più. Solo due gol nel campionato 2014-2015. Fin qui, niente di strano: può sempre capitare un’annata storta; magari, con l’età che inizia a diventare importante, la sua carriera da calciatore sta semplicemente prendendo il viale del tramonto. Magari è davvero così, o magari sarebbe successo comunque.
Emmanuel Adebayor lo conosciamo tutti. Forse.
Chi è, oggi, Adebayor? È un attaccante di 32 anni, svincolato, con all’attivo soltanto tre gol negli ultimi due anni. Un po’ strano per chi, nei tempi d’oro, si è trascinato sulle spalle un’intera nazione e ha portato il Togo ad un mondiale per la prima volta nella storia.
Emmanuel Adebayor non lo conosciamo tutti. Forse non lo conosce davvero nessuno. Questa è una storia di streghe, furti, tentati suicidi e lavaggi del cervello.
Questa è la storia di Emmanuel Adebayor.
È il 5 maggio del 2015 quando il togolese non ce la fa più e sbotta definitivamente, vomitando sul social tutto quello che aveva dentro. Il lungo post, all’incirca, recita così:
“Per molto tempo ho tenuto per me queste vicende, ma penso che oggi valga la pena condividerle con voi. So che le questioni di famiglia dovrebbero rimanere private e non essere manifestate in pubblico, ma lo faccio perché spero che le famiglie possano imparare da quello che è successo nella mia. Tenete bene a mente che niente di tutto questo ha davvero a che fare con i soldi.
Quando avevo 17 anni, con i primi stipendi da calciatore, ho fatto costruire una casa per la mia famiglia, assicurandomi che fossero al sicuro. Come sapete, nel 2008 ho ricevuto il premio come miglior calciatore africano dell’anno, portando mia madre sul palco per ringraziarla di tutto. Durante lo stesso anno l’ho portata a Londra per una serie di visite mediche. Quando è nata mia figlia l’ho chiamata per dirglielo, ma lei ha riattaccato subito non volendone sapere nulla. Leggendo i vostri commenti ho visto che secondo alcuni di voi avremmo dovuto consultare T. B. Joshua (un famoso predicatore nigeriano), così, nel 2013, ho mandato dei soldi a mia madre affinché andasse in Nigeria a consultarlo. Sarebbe dovuta rimanere lì per una settimana, ma dopo due giorni una telefonata mi informò che se n’era andata. Al di là di questo, le ho dato un sacco di soldi perché potesse aprire un negozio di biscotti e altre cose. Naturalmente le ho permesso di sfruttare il mio nome e la mia immagine in modo da poter vendere di più. Cos’altro potrebbe mai fare un figlio per sostenere la sua famiglia?
Un paio di anni fa ho comprato una casa a East Lagon, in Ghana, per 1,2 milioni di dollari. Ovviamente ho detto a mia sorella maggiore Yabo che avrebbe potuto viverci. Ho dato il via libera affinché potesse abitarci anche il mio fratellastro Daniel. Qualche mese più tardi, mentre ero in vacanza, ho deciso di passarci e ho trovato, con mia grande sorpresa, tantissime macchine parcheggiate: mia sorella aveva deciso di affittare la casa senza dirmelo. Aveva anche cacciato Daniel. Tenete conto che la casa aveva circa 15 stanze. Quando l’ho chiamata per chiederle spiegazioni mi ha tenuto al telefono mezz’ora urlando e insultandomi. Ho chiamato mia madre per informarla della situazione e ha reagito allo stesso modo di mia sorella. Quella stessa sorella che dice che sono un ingrato. Provate a chiederle dell’auto che guida o di quello che vende al giorno d’oggi.
Mio fratello Kola vive in Germania da 25 anni. È tornato a casa quattro volte, sempre a mie spese. Copro interamente i costi dell’istruzione dei suoi figli. Quando giocavo nel Monaco venne a chiedermi dei soldi per aprire un’impresa. Solo Dio sa quanti soldi gli ho dato. Dov’è finita quell’impresa? Quando è morto nostro fratello Peter ho mandato a Kola una gran quantità di soldi affinché potesse tornare a casa. Non è mai tornato. E oggi quello stesso fratello dice alla gente che sono coinvolto nella morte di Peter. Lo stesso fratello che è andato a raccontare false storie sulla nostra famiglia al “Sun” per racimolare qualche soldo. Quando giocavo a Madrid ha anche mandato una lettera alla società cercando di farmi licenziare.
Quando ero al Monaco pensavo che sarebbe stato bello avere una famiglia di calciatori, così ho fatto in modo che mio fratello Rotimi entrasse in una scuola calcio in Francia. Pochi mesi dopo, su 27 calciatori, aveva rubato 21 cellulari.
Non dirò niente su mio fratello Peter perché non c’è più. Possa la sua anima riposare in pace.
Mia sorella Lucia continua a dire in giro che mio papà mi ha detto di portarla in Europa. Ma a che scopo? Chi vive qui lo fa per una ragione.
Ero in Ghana quando ho saputo che mio fratello Peter era molto malato. Ho guidato il più velocemente possibile verso il Togo per incontrarlo e aiutarlo. Mia madre, quando sono arrivato, mi ha detto che non potevo vederlo: avrei dovuto semplicemente darle dei soldi e lei avrebbe risolto tutto. Solo Dio sa quanti soldi le ho dato quel giorno. La gente dice che non ho fatto niente per salvare mio fratello. Allora sono un pazzo che guida due ore verso il Togo per nulla?
Nel 2005 ho riunito tutta la famiglia per risolvere le nostre questioni. Quando ho chiesto la loro opinione mi hanno detto che avrei dovuto far costruire una casa a testa e garantire uno stipendio mensile a ciascuno di loro. Oggi sono ancora vivo e loro si sono già spartiti le mie proprietà, nel caso morissi.
Per tutti questi motivi, ho impiegato molto tempo per creare la mia fondazione in Africa. Ogni volta che cercavo di aiutare le persone in difficoltà, loro mi dicevano che era una pessima idea.
Non ho scritto tutto questo per denunciare il comportamento della mia famiglia. L’ho fatto solo perché voglio che altre famiglie africane possano imparare da questa storia. Grazie.”
Questo è l’intero fiume in piena riversato sulla sua pagina Facebook, ma non sarà l’unico. Pochi giorni dopo, esattamente il 10 maggio, Adebayor lascia trapelare nuovi inquietanti risvolti sulla faccenda con un nuovo post:
“Ecco un’altra parte della storia che ho tenuto finora dentro di me. Oggi sento la necessità di raccontarla. La voglio condividere perché credo che possa servire da lezione a chiunque la leggerà. Questa storia riguarda mio fratello, il quale continua a dire che io non sono un buon supporto per la nostra famiglia. Si chiama Rotimi e quando aveva 13 anni ha fatto qualcosa di molto brutto. Io e lui sappiamo cosa. I nostri genitori, per quel motivo, hanno dovuto mandarlo in un villaggio lontano dalla città. Quando ho cominciato ad avere successo nel calcio e sono tornato in Togo per le vacanze, ho saputo che laggiù soffriva e ho chiesto immediatamente di riportarlo a casa. Non appena rientrato mi sono assicurato che andasse a scuola. Per me era una cosa normale.
Nel 2002 ho giocato la Coppa d’Africa, svoltasi nel Mali, e ho avuto il privilegio di scambiare la mia maglia con Marc-Vivien Foé, pace all’anima sua: mio fratello, però, mi ha rubato la maglia e l’ha venduta. Quando sono andato al Monaco e ho giocato in Champions contro il Real è stato uno dei giorni più belli della mia vita perché ho ricevuto la maglia autografata da Zinedine Zidane. Mio fratello ha rubato e venduto anche quella. Quando ero al Metz e guadagnavo quindicimila euro al mese ho comprato una collana di quarantacinquemila euro a mia madre per ringraziarla di tutto quello che aveva fatto per me. Volevo farla felice. Rotimi e i suoi amici Akim e Tao hanno organizzato un piano e l’hanno rubata, per poi rivenderla a ottocento euro. Una volta saputo, mia madre mi ha chiesto di passarci su perché lui era il mio fratello minore.
A casa avevo un ripostiglio dove conservavo degli oggetti quando tornavo in Europa. Ero l’unico ad averne la chiave, ma mio fratello è riuscito a farsi un passe-partout e ha rubato, più volte, bibite e altre cose.
Nonostante tutto, come si suol dire “il sangue non è acqua”, così l’ho portato in una grande scuola calcio in Francia, ma sapete già com’è finita: ha rubato 21 cellulari ed è stato cacciato. Ad ogni modo, quando l’ho rivelato per la prima volta l’altro giorno, mi ha chiamato per dirmi che il numero di telefoni rubati non era 21, ma un numero minore. È accettabile tutto ciò? Mi ha anche detto che dovevo essere contento se prendeva le cose dal mio ripostiglio e quando gli ho chiesto perché mi ha risposto semplicemente con un “perché sono tuo fratello”.
Un giorno mi ha chiamato Jacques Songo’o, un ex calciatore del Camerun, e mi ha detto che Rotimi aveva rubato la Psp di suo fratello. Quando gliel’ho fatto presente, lui ha risposto che l’aveva semplicemente dimenticata nella borsa. Com’è possibile dimenticarsi nella propria borsa la roba di qualcun altro che viaggia insieme a te dalla Francia al Togo? Da quel giorno il mio rapporto con Songo’o è cambiato e lui ha preso le distanze da me e la mia famiglia.
Una volta ho portato da Montecarlo una borsa piena di scarpe da calcio dei miei compagni di squadra, in modo da poterle dare ai poveri, e mio fratello le ha rubate per rivenderle a Hedzranawoé, un famoso mercato pubblico del Togo.
Un giorno mia madre mi ha telefonato al mattino presto: io ero ancora a letto. Mi ha detto che Rotimi aveva ottenuto un visto per Dubai per poter andare a giocare a calcio. Sarebbe dovuto partire quel giorno stesso col suo amico Kodjovi o il visto sarebbe stato revocato. Non trovandone in classe economica, ho procurato a entrambi dei biglietti di prima classe: dopotutto, era l’occasione della loro vita. Dopo soli quattro giorni era già tornato a casa. Disse che Dubai non faceva per lui. Essendo un paese musulmano, non era libero di fare quello che voleva: non poteva bere, non poteva far festa e non poteva baciare le ragazze in pubblico.
La terza parte arriverà molto presto e riguarderà l’uomo che si autodefinisce il padre della famiglia: Kola, conosciuto come “il Leone di Judah.”
E in effetti il terzo post non si è fatto attendere per nulla. Soltanto cinque giorni dopo, è arrivato l’epilogo della sua epopea.
“Se oggi ho deciso di raccontare la terza parte è perché i miei fratelli hanno deciso di parlare dei nostri problemi familiari attraverso social, lettere ai miei club, radio… Potrei scrivere un’autobiografia e venderla, ma ho deciso di condividere il tutto con voi, qui.
Venticinque anni fa il mio fratello maggiore, Kola, è andato in Germania ed è diventato la speranza della nostra famiglia. Tutti noi pensavamo che avrebbe potuto cambiare le nostre vite. Anni dopo la sua partenza, però, eravamo ancora senza elettricità e telefono. Se avesse voluto parlare con noi, avrebbe dovuto chiamare l’Atlantic Hotel, un albergo accanto a casa nostra.
Quando ho avuto l’opportunità di andare a giocare a calcio in Francia per la prima volta e avevo bisogno di soldi per l’aereo, lui non si è fatto trovare da nessuna parte. Solo Dio sa cosa stesse facendo in Germania.
Quando sono arrivato in Francia ho fatto tutte le pratiche burocratiche con la mia squadra e mi hanno permesso di rimanere in accademia. Pochi mesi dopo, mio fratello voleva venire a trovarmi. Ero a corto di soldi, per cui ho dovuto chiederli in prestito al mio compagno di squadra Sega N’diaye per poter pagare l’albergo e il ritorno in Germania a Kola. Tenete a mente che è lui il fratello maggiore.
Un paio di anni più tardi le cose hanno cominciato a migliorare e grazie a Dio ho firmato un contratto con il Metz. Da quel momento in poi mio fratello si è fatto fatto sentire ogni qualvolta ha avuto delle scadenze da pagare.
Ho firmato un nuovo contratto, questa volta col Monaco. Un giorno Kola e il compianto Peter sono venuti a farmi visita senza avvertirmi, ma come ha detto qualcuno, “il sangue non è acqua”, così li ho ospitati. Erano venuti a trovarmi perché volevano avviare un’attività nel settore auto. Dal momento che ci volevano un sacco di soldi, ho detto loro che avrebbero dovuto aspettare il mio prossimo stipendio. A quei tempi Thierry Mangwa si trovava nel mio appartamento perché era alle prese con alcuni problemi personali e aveva bisogno di un posto dove stare. Un giorno, tornato dall’allenamento, l’ho trovato che piangeva. Non mi ha mai detto perché.
Un’altra volta uno dei miei amici, Padjoe, è venuto a farmi visita e gli ho prestato circa cinquecento euro. Kola ha visto la scena e ne è rimasto sconvolto, dal momento che a lui non avevo prestato niente. Il problema era che lui me ne aveva chiesti molti di più e io non disponevo ancora di quella cifra. Ne abbiamo discusso. Un giorno, essendo molto stanco dopo un allenamento, ho fatto un pisolino: al risveglio mi sono trovato un coltello puntato alla gola. I miei fratelli urlavano, accusandomi di sprecare il loro tempo. Sembravano in preda alla pazzia. A quel punto, dissi loro: “È questa la soluzione al problema? Allora ammazzatemi pure e prendetevi i miei soldi”. Solo dopo quella frase, Kola ha allontanato il coltello dalla mia gola. Non appena ho potuto, ho lasciato l’appartamento per contattare i miei genitori. Mia mamma mi ha consigliato di chiamare la polizia: era l’unico modo per tornare a casa mia senza rischi. Ho seguito il consiglio di mia madre, però ho lasciato perdere subito dopo: il sangue non è acqua.
Qualche giorno dopo, Peter è andato a far visita a un amico di Kola a Parigi, lasciandomi da solo con lui. Fortunatamente avevo trovato finalmente il modo di potergli dare i soldi che mi aveva chiesto. Solo Dio sa quanti gliene ho dati quel giorno. Qualche mese più tardi ho fatto ritorno in Togo e mia madre mi ha chiesto come avessi potuto mai chiamare la polizia, apostrofandomi come la pecora nera della famiglia.
Ogni volta che tornavo In Togo tutti quanti mi chiedevano come mai mio fratello non avesse mai fatto visita a casa. Così, alla fine, ho organizzato un volo a mie spese per farlo tornare dalla famiglia. Ed è tornato.
Il 22 aprile 2005 è morto mio padre. Ero distrutto. Ho chiamato mio fratello e gli ho detto che saremmo dovuti esserci tutti. Ancora una volta gli ho pagato il volo. Siamo tornati a casa e ho organizzato il tutto. Mio padre non voleva un funerale triste, voleva una celebrazione della vita, non della morte. Lascio giudicare a Dio se il funerale che ho organizzato per il mio papà era quello che voleva. Colui che si fa autoproclama “il grande uomo” della famiglia non ha contribuito per niente, ma ha ancora il coraggio di dire che non mi prendo cura della famiglia.
Il 22 luglio 2013 un’altra triste notizia ha colpito la mia famiglia. Mio fratello Peter se n’è andato. La sua morte mi ha parecchio debilitato. E ancora oggi non digerisco il fatto che Kola mi abbia accusato della sua morte. Mi ha detto che il negozio che ho aperto per lui non era abbastanza buono e che la mia carriera sarebbe stata distrutta. Ho fatto di tutto per Peter quando era ancora vivo, l’ho portato a Metz e a Montecarlo con me. Che cosa può dire invece Kola? Niente. Lui per Peter non ha fatto nulla. Non si è nemmeno presentato al suo funerale, nonostante tutti i soldi inviati per il viaggio, ancora una volta.
Mi ha anche accusato di far soffrire mia mamma, ma ha dimenticato che quando lui era in Germania ero io quello sempre accanto a lei. Appena ho iniziato a poter vivere con il calcio ho fatto tutto il possibile immaginabile per la nostra mamma. È la normalità. Mio fratello, però, non è mai soddisfatto. Ha detto che le ho comprato una macchina di merda. Perché allora non gliene compra una migliore? Vorrei solo che si prendesse le sue responsabilità. Se io non sto facendo del bene, dovrebbe darmi l’esempio da fratello maggiore quale è. È stato in Germania per più di 20 anni, ma non l’ha mai fatta visitare a mia mamma. Continua a ripetere che mio padre voleva che comprassi una casa per ognuno di loro. Non credo che mio padre l’abbia mai detto.
Molta gente mi rinfaccia di non essere mai andato a scuola, ma dimentica che non potevamo permettercelo. Non ho mai incolpato i miei genitori per questo. Grazie a Dio, ad ogni modo, oggi sono in grado di parlare tre lingue e posso permettermi di mandare mia figlia a scuola. Ne vado fiero: alla fine conta quello che sei, quello che la vita ti insegna e quello che tu impari da essa.
Molte volte avrei voluto rinunciare. Avrei voluto dire basta. Chiedete a mia sorella Iyabo quante volte l’ho chiamata perché ero pronto a suicidarmi. Ho tenuto per me queste storie per anni, ma se fossi morto nessuno avrebbe potuto conoscerle. C’è chi dice che avrei dovuto continuare a tenerle per me, ma qualcuno deve pur sacrificarsi. So che c’è chi si immedesimerà nelle mie disavventure e molti potranno imparare da esse. Chi mi conosce sa che farei di tutto per il mio paese e per la mia gente.
Messaggio finale per il mio fratello maggiore: smetti di fumare e di bere.
Questa è la mia storia.”
Il motivo di questi post? Le accuse pubbliche dei suoi fratelli, proprio in concomitanza con l’inizio dei suoi problemi fisici. La sorella, infatti, nell’autunno 2014 lo aveva accusato di aver cacciato di casa la madre e di aver tagliato ogni ponte con lei, sia economico che umano:
“Sua madre è costretta a vendere borse in polietilene, lucchetti e altro per sostenere la famiglia. Emmanuel non risponde neanche alle sue telefonate: lei non vuole soldi, vuole sentirlo perché gli vuole bene”.
Kola, tramite le colonne del “Sun on Sunday”, aveva rincarato la dose:
“Non ho mai cacciato mia madre di casa, lo ha deciso lei. Quanto alla mia famiglia, siamo in sette e anche i miei fratelli possono lavorare e badare alla loro madre ed è quello che dovrebbero fare. Invece, hanno già diviso i miei averi, le mie case e le mie auto, malgrado io sia ancora vivo”. E sul silenzio che dura da mesi ha aggiunto: “Come posso restare in contatto con mia madre se dice a tutti che non andrò avanti nel mio lavoro? Come posso parlare con lei se insieme alle mie sorelle tramano juju verso di me? Dovrebbe smetterla di parlare e di fare juju su di me, dovrebbero lasciarmi tutti in pace”.
Questa è la storia di Emmanuel Adebayor. Dopo i tre famosi post, il Tottenham ha lasciato libero il giocatore di far ritorno in Togo prima della fine della stagione affinché potesse risolvere i suoi problemi personali: secondo il Telegraph, il club sarebbe stato preoccupato della sua salute mentale, tanto da averlo dispensato anche dalla tournée estiva. Infine, il 13 settembre, è arrivata la rescissione del contratto.
Alla domanda “Chi è Emmanuel Adebayor?” adesso sapete rispondere… O è ancora più difficile?