Racconti Mondiali: Buffon, Cannavaro e il dialogo durante Italia-Australia

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“Non volevo andare a casa, ci stavo bene in Germania. Soprattutto, una volta arrivati agli ottavi di finale, i pensieri iniziavano a essere belli. Sentivo qualcosa. Poi, al cinquantesimo minuto di Italia-Australia, più che altro ho sentito l’arbitro fischiare, quindi l’ho visto mentre sventolava in faccia a Materazzi il cartellino rosso. Espulso.Dio mio. Avrei voluto urlare concetti parecchio brutti, non l’ho fatto, avrei unicamente aggiunto tensione alla tensione. C’era un solo modo per uscirne, per scaricarmi di energia negativa e caricarmi di buoni propositi. Uno solo: sfogarmi con qualcuno di esperienza, che mi ascoltasse, o comunque facesse finta di farlo. Davanti a me, per questioni di ruolo e di posizione sul campo, c’era proprio Fabio Cannavaro. Al centro della difesa. L’ho aggredito verbalmente: «Fabio, cazzo!».
«Cosa c’è, Gigi?»
«Non voglio tornare a casa, hai capito? Non-voglio-tornare-a casa.»
«Va bene, Gigi.»
«No, non va bene. Sono serissimo. Hai capito? Io voglio restare qui. A casa non ho
niente da fare, al mare ci posso andare a metà luglio.»
«Va bene, Gigi.»
«No, allora non hai capito. Mi dai ragione come la si dà a un coglione, ma non sto
scherzando per niente. Mica faremo la fine che abbiamo fatto in Corea?»
Fabio si è toccato. E in tutto ciò stava anche giocando, quindi fra un tackle e un passaggio, si girava verso di me e rispondeva. Io, è vero, là dietro da solo, avevo più
tempo di lui. Potevo permettermi discorsi leggermente più articolati. Lui correva, ritornava ai limiti dell’area, mi rispondeva: «Vedrai che non succederà». Il fiatone ne rallentava la parlata.
«Non deve succedere. Siamo l’Italia, non possiamo fare questa fine, Fabio. Fabioooooo!!!»
«Un attimo, Gigi, ho da fare.»
Partiva. Andava a chiudere gli spazi a Viduka, a fregare il pallone a Wilkshire. Poi tornava e la mia lamentela ripartiva: «Fabio, dài, restiamo».
«Certo Gigi, ma dammi tregua.»
«Non voglio tornare a casa!» Alzavo la voce, gesticolavo. Incredibile che, dall’esterno, nessuno si sia mai accorto di nulla. Sembravo un pazzo. Le tentavo tutte per ristabilire l’equilibrio mentale che l’espulsione di Marco aveva messo a dura prova. Fabio e io chiacchieravamo, ci spronavamo a vicenda, credo che le mie paure fossero anche le sue, però le mascherava bene. Anzi, ogni tanto mi insultava: «Gigi, tu sei scemo. La smetti di dirmi sempre la stessa cosa? Neanch’io voglio tornare a casa, per chi mi hai preso?».
Pareva in trance, aveva lo sguardo del combattente, e quell’espressione, almeno un po’, riusciva a farmi stare meglio.
«Fabio, promettimi che non finisce qui.»
«Te lo prometto, Gigi, ma fammi giocare.»
«Guarda che la mia famiglia può raggiungermi qui, non c’è bisogno che torni io da loro.»
«Lo so.»
«Se torno a casa, torno arrabbiato, non ne vale la pena.»
«Certo. Te lo giuro, non succede.»
«La vinciamo, vero?»
«Certo, certo…»
«Niente Corea?»
«Niente Corea.»
«Vaffanculo la Corea.»
«Amen.»
Non ci schiodavamo dallo 0-0, rischiavamo di prendere gol, speravo nei supplementari. Ho tormentato Cannavaro per quaranta lunghi minuti. Poi ci ha pensato Totti al 95’, su rigore, a portarci ai quarti di finale. Fino a quel momento, il mio dialogo con il nostro capitano era stato continuo. Tante volte avevo citato la Corea, lo spettro dell’eliminazione ai Mondiali del 2002 mi faceva molta paura. E sembrava più che mai presente.
«Gigi, hai visto che non si va a casa?»
«Si torna a Duisburg, l’avventura continua.»

(Gianluigi Buffon)

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