George (the) Best: l’icona di un calcio che non c’è più.

“I spent a lot of money on booze, birds and fast cars. The rest I just squandered.” – Ho speso molti soldi per alcool, donne e macchine veloci. Il resto l’ho sperperato.

Per molti, George Best era solo questo: il simbolo dell’anticonformismo, un eroe dannato consumato da un cocktail di donne, soldi, alcool e trasgressione. L’icona dell’eccesso e della bella vita. Su di lui sono stati scritti libri, sono stati girati film e – addirittura – gli sono state dedicate canzoni.

Ma lui era molto, molto altro. In questo articolo cercherò di farvelo conoscere come lo conosco io: non solo uno dei più grandi giocatori di sempre, ma anche un ragazzo che – come molti altri – quando vedeva un pallone iniziava a gioire. Che giocava per la gente che lo guardava.

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Nasce a Belfast, Irlanda del Nord, il 22 maggio 1946. Cresce in una famiglia modesta e in un quartiere povero, dove il pallone è l’unico modo per poter evadere da tutte le difficoltà che la vita ti presenta ogni giorno. “Insieme a George c’era sempre una palla”, così diceva sua madre Anne.

LA SVOLTA: A 15 anni gioca una partita contro una selezione di ragazzi di due anni più grandi di lui. Già si nota la sua “diversità”: segna due gol e fa letteralmente impazzire il malcapitato marcatore. A seguire la partita c’era un certo Bob Bishop, osservatore del Manchester United“Matt, credo di aver trovato un genio…”. questo il contenuto del famoso telegramma che quest’ultimo invia allo storico manager dei Red Devils, Matt BusbyDa questo momento inizierà la storia in rosso di George Best. Le prime difficoltà, però, non tardano ad arrivare. Dopo soltanto 24 ore dall’arrivo all’Old Trafford, il nostalgico ragazzino di Belfast decide di far ritorno in patria. La leggenda narra che sia stato proprio Busby a recarsi personalmente in Irlanda per chiedere a Best di riprovare.

L’ESORDIO: E’ il 14 settembre 1963 e la partita, valida per la First Division, è contro il West Bromwich Albion. Il primo gol arriva il 28 dicembre dello stesso anno, durante un match di FA Cup contro il Burnley poi conclusosi 5-1 in favore dello United. Fin da subito avevano capito che, davanti ai loro occhi, c’era un potenziale fenomeno. Non un giocatore qualunque, ma il prototipo del giocatore moderno: Best non era solo un funambolo svogliato, in campo metteva una grinta invidiabile. Non tirava mai indietro la gamba durante un tackle duro, ma allo stesso tempo era capace di scartare l’intera difesa (portiere compreso) e di andare in gol con una facilità impressionante. Un mix letale per gli avversari: i piedi da fantastico giocoliere ed il cuore di un mediano vecchio stampo. Un metro e 72 di generosità e talento. Il genio stava mostrando il suo volto a tutto il mondo.

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1968, UN ANNO DA RICORDARE: Il Manchester United sul tetto d’Europa. L’avversario il Benfica di Eusébio. Dopo la grande partita di due anni prima, valida per i quarti di finale di Champions League, le due squadre si ritrovano in campo, stavolta per disputare la finale. Anche in questo caso, l’esito finale sorrise ai Red Devils: 4-1 il risultato, nel tabellino dei marcatori – ovviamente – c’era anche il 7. George Best era ormai diventato un idolo incontrastato. Quell’anno segnò 28  gol e fornì 11 assist. Al termine della stagione, come prevedibile, venne insignito del Pallone d’Oro.

I suoi problemi con l’alcool li conoscono tutti, alcuni li hanno ingigantiti all’inverosimile. Non sarò di certo io a ripeterli, il mio intento è quello di ricordarlo come genio assoluto del calcio ma allo stesso tempo come un ragazzo timido ed introverso. Colui che, una volta divenuto l’icona del calcio, in un’Inghilterra che stava piano piano diventando il fulcro del mondo, non andava a malincuore a  trovare i suoi cari per non turbare la loro tranquillità. Colui che, quando metteva piede in un campo di calcio dimenticava tutti i problemi e faceva divertire. Sì, faceva divertire tutti, indipendentemente da quale squadra sostenessero. Prima della sua morte, in un letto d’ospedale, esibì la famosa frase “Non morite come me”, sebbene fonti vicine a lui abbiano confessato che quella frase gli fu attribuita da terzi. Forse è vero, lui probabilmente non avrebbe mai detto una cosa del genere. Non era tipo da pentirsi delle proprie azioni, anzi, se avesse avuto un’altra vita a disposizione l’avrebbe vissuta esattamente come la prima.

Una sera, prima di ritirare il premio Golden Foot, a Montecarlo, ha rilasciato una delle sue ultime interviste. Forse la più emblematica per capire chi era veramente George Best: “Boh, la storia… Io ho sempre giocato per piacere, per divertire me stesso e i miei fan”,rispondeva Best: “Quando ho iniziato io, l’Inghilterra era fantastica. Si cominciavano a portare i capelli lunghi – e infatti io li portavo – la musica era favolosa, la moda era meravigliosa e anche il calcio britannico non era male. Vincevamo le coppe europee e ogni anno una squadra diversa vinceva il campionato. Oggi invece ci sono solo Manchester United, Chelsea e Arsenal. Che noia…(…) i tempi in cui non si giocava con gli orecchini, i capelli colorati, i tatuaggi sui polpacci. I tempi in cui io, Di Stefano, Pelè, i miei amici dello United facevamo divertire la gente. Allora il calcio era divertimento… Penso che si dovrebbe sempre scendere in campo sorridendo ed è quello che facevo io. Oggi invece è tutto troppo maledettamente serio, perché ci sono troppi soldi, perché se perdi è la fine del mondo. E ti dico che se tornassi in campo oggi, rifarei tutto allo stesso modo, giocherei per far divertire il pubblico, e basta”.

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Il capellone, El Beatle, Geordie, comunque lo si voglia chiamare, resterà per sempre Best. Forse, the Best.

 

Fabrizio Famulari.

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