Dall’arrivo in Italia al Pallone d’Oro, passando per il rapporto con Ancelotti e il Real, Kakà si racconta

Arrivato in Italia con la diffidenza di tutti, specie per il nome che, nel nostro Paese, non lasciava presagire grandi cose, Ricardo Izecson dos Santos Leite, al secolo Kakà, è stato una delle più grandi sorprese del calcio italiano nel nuovo secolo. Arrivato nel 2003 a Milano dopo esser stato attentamente seguito da Leonardo, l’ex 22 rossonero nella sua avventura italiana ha vinto tutto: campionato, Champions League, Mondiale per Club e Pallone d’Oro, diventando un simbolo del Milan di Ancelotti. All’emittente Sport Tv il brasiliano ha ripercorso i passi più importanti della sua carriera, dal rapporto con Carletto al Pallone d’Oro, passando per la Fede, la sua avventura al Real e la sconfitta di Istanbul.


“Quando me ne andai dal San Paolo ero molto giovane. Il mio presidente di allora, Paulo Amaral, mi chiese se sapevo chi giocava nel mio ruolo nel Milan. Gli risposi di sì: Rivaldo e Rui Costa. Poi arrivai a Milano e Carlo Ancelotti mi disse che dovevo rimanere lì al Milan. E tutto capitò a una velocità che non mi aspettavo. Giocai titolare nella prima partita contro l’Ancona e poi quasi tutte le altre, arrivò subito lo scudetto, fui uno dei migliori giocatori della serie A. Non pensavo potesse succedere tutto così in fretta. Ancelotti è l’allenatore che mi ha valorizzato di più. Ha sempre tentato di mettere tutti a loro agio con lo scopo di fare l’interesse della squadra. Una grande dote e la utilizza in tutte le sue esperienze. In questo modo il giocatore dà il massimo anche per il suo allenatore e non solo per sé stesso. Il giocatore che più mi ha influenzato positivamente è stato Maldini. Un capitano vero. Quando sono arrivato aveva già vinto tutto, eppure ogni giorno dava tutto in allenamento. Sapeva quando doveva dare una stoccata a un giocatore, o alla società, o alla stampa o ai tifosi. L’ho visto anche litigare con un allenatore. E poi vi racconto questa. Eravamo all’aeroporto di Milano, appena atterrati da Istanbul dopo aver perso la finale contro il Liverpool. Ci incrociammo con dei tifosi che iniziarono a insultarci, dicendo che non si poteva perdere in quel modo. Maldini si alzò, andò incontro a quei tifosi e chiese chi fosse il loro capo. Andò ad affrontarlo, si sedette con lui e gli spiegò cosa era successo. Poi tutti a casa. Quello vuol dire essere un capitano.

Non mi pento di aver rifiutato il City. Sarei stato il primo pezzo di un progetto che oggi sta dando i suoi frutti. Ma in quel momento la mia scelta fu quella di rimanere al Milan, sei mesi dopo andai al Real. Non me ne pento, fu la scelta giusta e più sensata. Adesso forse sarebbe diverso. Nella mia carriera ho avuto tutto, ma se potessi riscrivere qualcosa cancellerei gli infortuni e inserirei tre o quattro anni di Premier League. Poi il Real, ero sicuro che sarebbe andato tutto bene. E invece non fu così.Mi mancò la continuità, soprattutto a causa degli infortuni, ma anche per le scelte degli allenatori. Buttai tre anni cercando di convincere Mourinho che meritavo di avere più possibilità. Ma lui sceglieva diversamente e tutto questo era fuori dal mio controllo. Però mi comportavo da professionista serio e oggi posso andare quanto voglio a trovare Florentino Perez. Per me le porte del Real sono sempre aperte. Il rapporto con Mourinho oggi è buono. Non ce l’aveva con me, però io pensavo di dover giocare e lui pensava il contrario. Mourinho nella vita di tutti i giorni è esattamente quello che si vede da fuori. Può esplodere ma è una persona molto intelligente e preparata. Quello che dice nelle conferenze stampa è tutto preparato nei minimi particolari. Uno stratega perfetto. Nel 2013 al Real arrivò Ancelotti e Perez gli chiese di rinnovare molto, di inserire dei giovani. Carlo fu molto chiaro con me e io dissi che avevo bisogno di giocare per tentare di andare al Mondiale.

Quattro sconfitte bruciano ancora nel mio cuore: le eliminazioni dai Mondiali 2006 e 2010, una semifinale di Champions League con il Real persa contro il Bayern ai rigori e la finale di Istanbul persa con il Milan contro il Liverpool. Però fa parte della vita. Quella sconfitta del 2005 contro il Liverpool mi ha insegnato che vincere o perdere è qualcosa che sta fuori dal nostro controllo. Possiamo fare il possibile per evitare di perdere, ma può non bastare. Con la Nazionale le sconfitte fanno male perché perso un Mondiale non sai mai se ne farai un altro. Nel 2006 avevamo tutto per andare avanti, ma c’era troppo caos in quella Seleçao e nessuno che avesse la forza di parlare e prendere in mano la situazione. A mente fredda è facile analizzare le cose, ma quando ci sei dentro non te ne rendi conto. Ci vogliono sempre dei leader in una squadra. Quando sono arrivato al Milan ragazzo, c’era gente come Cafu, Maldini, Shecvchenko. Quando in casa c’è qualcuno che ti taglia le ali quando vuoi volare troppo in alto, lì sì che le cose possono funzionare.

Ho sempre parlato della mia fede, non riuscivo a separare la persona Kakà dal professionista Kakà. Le persone che mi vedono e mi ascoltano sanno che io sono sempre lo stesso, in pubblico e in privato. Mi hanno criticato spesso per questo, ma altri sono stati criticati perché facevano la bella vita. Preferisco essere criticato perché sono religioso, per questo ne ho sempre parlato liberamente. Ci sono alcune cose che oggi, soprattutto con i social network, in cui ognuno di noi si trasforma in comunicatore e raggiunge molte persone, andrebbero conservate in maniera diversa. Non mi pento assolutamente di essere arrivato vergine al matrimonio, ma questo è un aspetto che oggi terrei un po’ più per me, per mettermi al sicuro da speculazioni e scherzi, di cui non sento la necessità.

Conosco esattamente i miei limiti. Dei cinque giocatori brasiliani che hanno vinto il Pallone d’oro, io sono quello con meno talento. Ma forse sono quello che si è comportato in maniera più professionale. Io ho sempre vissuto un tipo di calcio stile Zidane, più atletico, più fisico. Ho vissuto un momento di transizione del calcio e mi sono adattato, ho capito la necessità del dinamismo. Con il solo talento non sarei andato lontano. Non sono come molti giocatori brasiliani che possono eclissarsi per quasi tutta la partita e poi risolverla con un colpo. Dovevo correre se volevo emergere”.

KAKA’

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